Quello dei pescatori è un mondo che scompare? Una domanda angosciante per quanti credono e vivono le tradizioni. E il legame Cefalù-mare è molto stretto: è eminentemente culturale. Il Vaso che si custodisce al Museo Mandralisca, "Il venditore di tonno", offre ai visitatori il segno emblematico di un mondo che ha una sua perennità. Ci dice di radici profonde della nostra Isola e di questa parte della costa settentrionale e di Cefalù, per restringere ancor più lo spazio, che recitò in questa suggestiva e particolare pesca un ruolo importantissimo nella storia della marineria sicula. Cefalù poteva contare su tonnare tra le più antiche e le più vaste. Le Tonnare di pertinenza di Cefalù o meglio del vescovato di Cefalù, amministrate dalla sua “mensa”, anche de date spesso in concessione ai laici, insistevano su un tratto di mare che da Buonfornello si spingeva fino a Tusa. Vi è una pubblicazione curata dalla Fondazione Culturale Mandralisca dal titolo "La Tonnara in Sicilia" edita nel 1992 che risulta preziosissima anche perché, in anastatica, viene riportato un documento del 1929 dal titolo "Del diritto di calar tonnare della Mensa vescovile di Cefalù", che tra tutti gli altri pregi ha quello di una ricostruzione storica dettagliata dell'antica ricchezza di questa pesca, fonte economica di rilievo, che coinvolgeva buona parte della popolazione nostrana. Una premessa questa che può dare adito a naturali considerazioni secondo le quali vi è in fondo in tutto il discorso un profondo sentimento di nostalgia tra i "patiti" della tradizione in un mondo, quello d'oggi, nel quale si parla di "acquacultura", di "vivai", di "ripopolamento" ed altri "ritrovati", certamente scientifici per far rivivere il mare, per far rifiorire l'economia del mare, riportare i pescatori a quella dignità che deve conseguire alla loro fedeltà e al loro amore per il mare. Ci poniamo, e non in modo retorico, la domanda se i pescatori di oggi, così pochi che son rimasti, pensano di avere o meno delle prospettive; cosa pensano delle soluzioni che provengono dalle "accademie"; in che posizioni si pongono con il passato dei loro avi; si pongono un problema possibile di riconversione?
Ci siamo occupati anni fa del tema che riguarda gli uomini di mare ed abbiamo sostenuto (e ne siamo ancora convinti) che il mondo dei pescatori, sotto l'aspetto sociologico, presenta particolari caratterizzazioni la cui rivisitazione offre doviziose valenze culturali. Ieri come oggi il ceto dei pescatori può considerarsi una "casta" con le sue regole rigide e chiuse. Un tempo era quasi una norma il contrarre matrimonio solo ed esclusivamente nell'ambito delle stesse famiglie di pescatori. Persiste ancora il rigore gerarchico che prescinde da ragioni tecnico-organizzative, ma coglie piuttosto marcatamente aspetti etico-educativi. Il mozzo, il lavoratore-pescatore, l'occasionale pescatore, il capobarca costituiscono gradini di valore di una scala gerarchica che non ammette devianze. Il capo-barca è un "rasi" (raysi nel gergo arabo), cioè un capo vero e proprio. Il termine è anche esteso ai pescatori più anziani che non sono più in attività ed anche se non sono stati né capibarca né proprietari di barche.
Un tempo si marcava molto la differenza tra il pescatore ed il "marinaio di rivela", ossia il marinaio che s'imbarcava sui velieri. La distinzione riguardosa vige ancora oggi verso quanti scelgono la via del mare per carriera. Il marinaio "privilegiato" è colui-che ha la fortuna di studiare le tecniche nautiche, è colui che un giorno potrà "uscire dalle acque nostrane". Invero da sempre la navigazione dei pescatori cefaludesi non va oltre "l'acqua capuna", non troppo lontana dalla costa, tant'è vero che è proverbiale riconoscere i pescatori di Cefalù quali navigatori costieri. Si dice, infatti, "tierra tierra comu i varchi di Cifalò!" (terra come le barche di Cefalù). I più anziani ricordano che rarissime erano le sortite (in periodo di grande magra) nelle "lontane" acque di Siculiana. Mentre le barche di Cefalù si spingevano fino alle Isole Eolie per imbarcare "capperi" e fare oggetto di commercio. Negli anni Venti dello scorso secolo il ceto dei pescatori fu interessato in modo massiccio sia dal fenomeno dell'emigrazione (molti figli di pescatori andarono soprattutto in America) che dal fenomeno dell'apprendistato artigianale. Che un artigiano accogliesse nella sua bottega un figlio di pescatore era una conquista per lo stesso ceto dei pescatori, una scelta nobile. _Le botteghe artigiane erano autentiche fucine nel senso più lato dell'espressione. L'artigiano era il medio ceto della nostra società. Chi riusciva ad inserirsi nelle attività artigianali poteva dichiararsi fortunato perché così poteva evitare la vita durissima del mare. Una vita di rischi, di stenti e di durissime fatiche. Non va dimenticato, infatti, che solo negli anni cinquanta si abbandonarono le barche a remi per introdurre quelle a motore, comunque nella seconda metà dell'ottocento ai primi del '900 la presenza di un bastimento legato al commercio dell’olio, della manna di proprietà della Ditta Damiano Giardina.
È un capitolo della nostra storia di mare di notevole importanza che va legato a tutto il contesto madonita. Ancora oggi molte sono le piccole imbarcazioni. Notevole è la presenza di "uzza" (gozzi) che per loro natura sono imbarcazioni per un certo tipo di pesca, per esempio, la pesca di "sicci" (seppie). Si dice dai pescatori che si "va a sicciari" (a pesca di seppie).
Sotto l'aspetto strettamente tecnico e dell'organizzazione del lavoro sono avvenuti dei mutamenti, nell'uso degli strumenti di pesca. Per esemplificare diciamo che oggi non vi sono più corde di "ddisa" (legavite) che realizzavano gli stessi pescatori. La legavite veniva lavorata, prima ammorbidendola con l'acqua, poi veniva battuta con uno strumento in legno (una sorta di mazzuolo, ma di dimensione più corta) ed infine attorcigliata con una nodolatura che richiama da vicino le normali corde. Le reti oggi sono di nailon prefabbricate, mentre un tempo erano realizzate e riparate dalle donne dei pescatori. Resistono, però, ancora tanti strumenti tradizionali e con essi ne persiste il linguaggio. È vivo ancora il lessico delle misure: canna, strumento in legno, lungo quanto un'apertura di braccia normali; ‘u cantaro, corrispondente grosso modo a cento chili; spasella, che è un contenitore quasi piatto per la profondità, ma è anche misura (spesso il pesce viene venduto a spasella cioè per la quantità che può contenere una spasella). I pescatori continuano a usare 'u valanzuni, ossia una bilancia a statèra ad un solo piatto. Non è venuto meno l'uso del varrile, ovvero un contenitore per la conservazione del pesce. Quanto, poi, agli strumenti di pesca classica (a Cefalù la pesca principale è quella delle acciughe e delle sarde) essi sono diversi e molteplici. La minaita, ossia la mensida per i fondali, presenta nella parte superiore i cosiddetti salimi, cioè i pezzi di sughero che servono a tenere a galla la rete, mentre la parte inferiore è dotata di piombi per l'affondamento della medesima. L'uso di andare a paranza è quasi venuto meno. Paranzari si chiamavano i pescatori che praticano questo tipo di pesca. Le barche della paranza vanno a coppia (parigghia) legate al secondo banco di poppa (bancu sintina) e portavano reti a strascico terminanti a sacco (cannola). Un'altra pesca è quella d'u parangulu formato da quattro ceste e un linzinu che è uno spago speciale che nella punta presenta un piccolo amo che, legato ad una corda, viene buttato lontano per pescare le sarde. Un'altra rete è 'u tartaruni utilizzata quando l'acqua è troppo bianca conseguentemente a qualche avvenuto temporale. Con tale rete si pesca 'u muccu, ossia la neonata. È ricorrente tra i pescatori il termine sciabbica: è la rete con la quale si possono pescare scummi (gli sgombri). Ed ancora 'a cianciolu: classica pesca notturna per pescare sarde ed acciughe. Tale tipo di pesca si effettua con le lampare. Il cianciolo è una rete lunga 207 metri la quale presenta una sorta di custodia, cioè un'altra rete di protezione chiamata fascìuni (larga fascia). La prima rete presenta 32 anelli di ferro che vengono passati in una corda chiamata cannimu (raccoglitore) che ha la funzione di raccogliere tutti gli anelli in un punto e, quindi , chiudere il pesce.
Andare a raiuli significa andare a pesca di seppie, triglie, aiole... Esiste per questo tipo di pesca 'a rizza di lienza, cioè la rete ad ago, così come 'a rizza Iungara per la pesca del pesce spada e del tonno. Dicevamo che notevole è la quantità di pesce azzurro che viene pescato nei nostri mari e che alimenta la piccola industria conserviera per la quale viene impiegata parecchia manodopera da quelli che scapuzzano i sardi e anciovi (tolgono la testa alle sarde e alle acciughe) ai salatori. Una pesca tradizionale e caratteristica a Cefalù è quella anche dei "capuna" (caponi) e "nfanfari" (fanfari) che si svolge nei mesi di settembre-novembre. Una pesca praticata con una rete speciale e a largo dalla costa. 'U capuni viene "attratto" mediante un'esca particolare che i pescatori chiamano 'a valarina. La valarina è realizzata mediante pezzi di legno, di sughero etc. Nel punto in cui vi è 'a valarina i pescatori collocano a calma, cioè sugheri, bidoni di plastica o palme. Il pesce è attratto e, quindi, cade nella predisposta rete. Un altro pescato tipico a Cefalù, anche se di minore quantità, è quello del pesce porco per la cui pesca si usano i nassi. Essi sono strumenti a forma di giara terminante a punta di piramide, realizzati dagli stessi pescatori con giunti di virgulto di olivo.
Quando avviene la pesca, al rientro, a Cefalù il pesce viene convogliato sutta aravia. Il luogo ove i pesce viene pesato, valutato nel prezzo mediante asta, e, dunque, posto in vendita. A Cefalù la quasi totalità del pescato viene venduto dai riattieri (rigattieri), quasi sempre sono gli stessi pescatori addetti alla vendita. Il pesce viene da loro collocato 'ne panara (panieri speciali perché molto larghi e piatti) o nelle baschitte. Per ciò che concerne ancora gli strumenti di mare diciamo che nelle piccole imbarcazioni così come nelle grandi vi è 'a sassola. Si tratta di uno strumento concavo che serve a sgottare l’acqua, ossia a togliere l'acqua che si accumula nel fondo dell'imbarcazione. Per quanto riguarda altre specie di fauna marina, oltre ai pesci già citati, sono presenti nel nostro mare I "vuopi" (vopi); i "sauri" (saraghi); "a spinala" (spigola); "a ricciuola" (ricciola), chiamata dai pescatori "a rigina du mari" (la regina del mare); ed ancora "a picara" divisa in liscia, pitona e spinosa. I pescatori temono molto "a tracina" (trachinus draco) per la sua spina velenosa. Tra i frutti di mare sono raccolti "i rizzi" (ricci) e "accelli" (arcelli).
Sotto l'aspetto sociologico diciamo ancora che i pescatori, ridotti ormai a poco più di un centinaio di unità, occupano nelle linee generali spazi ben precisi della Città, anche se buona parte delle famiglie si è stanziata alla Caldura nel cosiddetto "Villaggio dei Pescatori", in quella parte, grosso modo, dove oggi insiste il porto "nuovo" (lato orientale della Città).
I pescatori, giovani o anziani che siano, considerano il "villaggio" un dormitorio: essi continuano a gravitare nei luoghi tradizionali dell'antica Cefalù, nei magazzini e nelle case che sono appartenuti agli avi. Si tratta delle vie Vittorio Emanuele (una volta via Fiume), Veterani, Carlo Ortolani di Bordonaro, Porpora e alla Giudecca.
Questo nostro lungo discorso non serve soltanto ad una conoscenza accademica della realtà degli uomini di mare di Cefalù, dei loro mondo, dei loro strumenti, ma a valutare culturalmente una realtà umana e di categoria dalla quale non si deve prescindere. Il pesce azzurro, più comune nei mari italiani offre, oltre alla freschezza, economicità e assume un ruolo fondamentale anche in una sana ed equilibrata alimentazione; grazie alla presenza di acidi grassi serve a prevenire diverse patologie. La fama del pesce azzurro ha origini antichissime, già ai tempi dell'antica Roma l'uso era frequente nelle salse.
Dal settecento grazie alla diffusione della tecnica di conservazione sott'olio entrò nelle tavole dell'entroterra. Il pesce azzurro oggi rappresenta un alimento che appartiene a tutti i ceti sociali, un tempo non vantava amicizie altolocate. In effetti rappresentava il cibo quotidiano dei pescatori una delle comunità più povere. Oggi, fortunatamente, a Cefalù come nel resto del territorio è considerato una grande risorsa alimentare e gastronomica.
Esiste un patrimonio vastissimo di ricette regionali e locali a base di pesce azzurro, alcune raffinatissime, ma è interessante sottolineare la grande diffusione della conservatoria sott’olio e sotto sale tipica della nostra Città. Bisogna precisare che "pesce azzurro" non corrisponde ad un gruppo definito di specie. Vengono definiti azzurri quei pesci che oltre a caratterizzarsi per la loro colorazione blu scuro dorsale ed argentea ventrale, solitamente sono di piccole dimensioni. Le specie più pescate sono: le alici, le sardine, lo sgombro. In realtà, possono essere considerati azzurri per il colore anche molti altri pesci che per colorazione e dimensioni non hanno nulla in comune con quelli più conosciuti.
Basti pensare al tonno, al pesce spada. La pesca e la marineria fanno parte da sempre della storia di Cefalù: i pescatori assieme ai contadini, per secoli, sono stati il gruppo professionale più numeroso.
Né è testimonianza la festa più importante, quella del SS. Salvatore che si festeggia il 6 Agosto, con la tradizionale antichissima 'Ntinna a mare, una gara di abilità marinaresca sulla scorta di una sorta di albero della cuccagna (non più verticale come la versione terrestre), sospeso sul mare, che vede protagonisti proprio la categoria dei pescatori locali. Un’ipotesi assai credibile è, che la 'Ntinna a mari abbia avuto inizio fin dal 1729 come attesta documento notarile del 1750 custodito presso la biblioteca del Museo Mandralisca di Cefalù. Si narra, infatti, che gli uomini di mare cifalutani, si svagassero sulle navi facendo un gioco: gli uomini più audaci si sfidavano nell'attraversare il "bompresso", ovvero un lungo albero posto orizzontalmente a prora delle navi, che aveva la funzione di tendere le cime celle vele di prora. La versione terrestre cefaludese, invece, è più complicata, in quanto l'albero viene cosparso di sego e sapone e nel corso dei turni di finale, una corda, posta in punta, in prossimità della bandiera con l'effige del Cristo Pantocratore, viene tirata energicamente da alcuni uomini che stanno su una barca, rendendo così sempre più difficile il raggiungimento della meta. Il gioco prevede dei turni preliminari che vietano ai partecipanti, anche nel caso che qualcuno giungesse in punta all'albero, di staccare il vessillo. Ciò è possibile soltanto nei turni di finale. Altro aspetto fondante della tradizione è che i partecipanti di tale manifestazione possano provenire solo da alcune famiglie di pescatori cefaludesi, che si tramandano tale diritto attraverso le generazioni. Tale evento, si svolge il 6 agosto, giorno conclusivo dei festeggiamenti in onore del Santissimo Salvatore, anche se negli ultimi anni si è avuto uno spostamento delle date per motivi legati alla condizione del mare.
Nel corso degli anni la manifestazione ha creato un richiamo turistico sia per il periodo in cui si svolge e sia per la rarità di una tradizione non molto diffusa, anche se presente nel mediterraneo.
di Domenico Portera